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A tavola con le Emozioni

Oltre ad essere necessario per la sopravvivenza, mangiare ha tante affinità con il piacere, fisico ed emotivo. Ci sono tanti sensi coinvolti, come il gusto, l’olfatto, la vista, il tatto e l’udito (alcuni cibi fanno anche rumore!). E proprio come suggerisce S. Agostino, “tutto quello che arriva all’intelletto passa prima dalle sensazioni”. Allo stesso modo anche i bambini vivono questo importante nesso tra il cibo e le emozioni: spesso il momento del pasto è anche divertimento, socializzazione e apprendimento, momenti importati in cui le emozioni li accompagnano e li allietano mentre mangiano a tavola in compagnia.

A volte, però, a tutti noi può capitare di provare emozioni che fanno perdere l’appetito, così come può essere stata esperienza comune aver vissuto emozioni che ci hanno portato a mangiare (anche in abbondanza) pur senza appetito. Ma come è possibile che le nostre emozioni ci condizionino così tanto mentre mangiamo?

Per rispondere a questa domanda, ci viene in aiuto la chimica e la biologia: quando siamo tristi, ad esempio, il corpo e il cervello “consumano” molta energia e questo richiede un maggior apporto di glucosio. Così può essere capitato a molti di noi l’esperienza di aver voglia di un qualcosa di dolce da mangiare quando siamo giù di morale, tanto che anche al cinema mostrano spesso scene in cui la protagonista è molto triste e si butta sul divano con in mano il classico barattolone di gelato che mangia mentre sta piangendo. Insomma, la serotonina (molecola della felicità) deve pur arrivare in nostro soccorso per sostenerci!

Al contrario, ci possono essere emozioni che “chiudono lo stomaco”, come quando proviamo la sensazione di paura e l’ultima cosa a cui pensiamo è proprio il mangiare. In questo caso, infatti, l’organismo chiude le vie dedicate al cibo per “essere pronto all’azione”, una reazione tanto antica quanto ancora presente in ognuno di noi.

Pablo Picasso diceva che “i colori, come i lineamenti, seguono i cambiamenti delle emozioni” e, parafrasando il suo pensiero, potremmo dire che i cibi, come il desideri, seguono il cambiamento delle emozioni.

E se questo legame tra emozione e cibo è valido per noi adulti, proviamo ad immaginare quanto lo possa essere per i bambini e gli adolescenti: un tripudio di emozioni che possono portare a reazioni spesso esplosive e inaspettate. Così possiamo assistere a bambini che non vogliono mangiare perché molto pensierosi, molto tristi o arrabbiati. O, al contrario, bambini e ragazzi che non si controllano perché molto euforici… Cosa fare in questi casi?

In entrambi i casi è molto importante cercare di capire quali siano le emozioni che accompagnano i bambini/ragazzi, in modo da poterne parlare e aiutarli a sbrogliare le matasse che spesso aggrovigliano la loro mente. Il primo passo è quello dell’ascolto attivo (Rogers, 1970), ovvero saper ascoltare per poter comprendere il punto di vista altrui: prima riusciamo a comprendere il nostro interlocutore, le sue motivazioni e i suoi interessi, più riusciamo a proporre una soluzione al suo problema o anche più semplicemente a dare un consiglio per affrontare la situazione.

A tal proposito mi viene in mente la storia di Lucia, una bambina di 11 anni molto sensibile e intelligente. Quando venne a mancare la sua amata gatta “Birba”, che conosceva da quando aveva soli due anni, si chiuse in un silenzio che durò molti giorni. I genitori, preoccupati anche dal fatto che era diventata inappetente e stava visibilmente perdendo peso, si rivolsero per un consulto. Per prima cosa chiesi loro cosa stavano facendo per cercare di aiutare Lucia e scoprii che cercavano di spronarla a parlare e a mangiare (anche proponendole piatti a lei sempre piaciuti), tentativi che si dimostrarono infruttuosi. Era importante interrompere questo circolo vizioso nel quale tutti si stavano incastrando, che portava frustrazione ed incomprensione. Dopo averli rassicurati sul come sia normale vivere intensamente le emozioni a quella età e che una profonda tristezza è coerente con il fatto accaduto, chiesi loro una cosa molto difficile per un genitore: provare per qualche giorno ad osservare Lucia intervenendo il meno possibile, addirittura sarebbe stato auspicabile osservare la situazione senza intervenire (Nardone, 1998). 

Se quindi Lucia non avesse voluto mangiare, chiederle di rimanere almeno a tavola con loro; se avesse avuto momenti di sconforto, starle vicino in ascolto ma senza chiederle di parlare e se avesse iniziato a parlare spontaneamente, evitare troppe rassicurazioni verbali preferendo quelle non verbali (vicinanza, ascolto attivo…). Dopo un paio di giorni in cui Lucia mantenne il suo precedente comportamento, iniziò volontariamente a parlare della sua tristezza con pianti lunghi e interminabili, durante i quali la mamma riuscì a resistere alla forte tentazione di rassicurarla con dolci parole, rimanendole vicina in un ascolto profondo e attento. Anzi, fu lei stessa ad un certo punto a rassicurare la mamma dicendo che comunque stava bene, che era “solo un po' triste”. Lucia stava imparando a trovare dentro di sé il giusto modo per affrontare le sue emozioni. Da lì a pochi giorni riprese a mangiare normalmente e a ritornare a chiacchierare con i suoi genitori, mostrando quei sorrisi che (giustamente) aveva perso nelle settimane precedenti.

"L’universo ha senso solo quando abbiamo qualcuno con cui condividere le nostre emozioni". (Paulo Coelho)

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